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C’era una volta la joint venture, quel fenomeno che per lungo tempo aveva connesso con una singolare molteplicità diverse case automobilistiche, pratica andata diradandosi con l’emergere di un confronto sempre più muscolare, determinato da equilibri finanziari a volte non sempre scontati. E’ una lotta fra colossi sempre più spietati, veri giganti capaci di assorbire e inglobare nella propria “pancia” le creature più piccole e fragili. GM a parte, negli ultimi venti, al più trenta, anni sono scoppiate bolle industriali, si sono formate fitte trame per un bilanciamento precario. Nell’universo capitalistico, la staffetta passa di mano in mano molto rapidamente. Una risposta compatta alla crisi economica di fine 2008, poi, ha rimescolato ulteriormente un composto assolutamente disomogeneo, con la costola di Daimler Benz, Chrysler, che progressivamente andava accostandosi a Fiat. Ma questa è una storia che conoscono tutti: non potevamo fare a meno però, di ricordare quanto fosse importante districarsi dalla mera elencazione degli accordi commerciali, dall’incrocio azionario Nissan-Renault, alla cellula Hyundai-Kia, per comprendere il fenomeno in profondità. Fra coloro che scelgono la via della prudenza, della “stretta di cinghia”, perché investire capitale oggi è assai pernicioso, con PSA emerge chiaramente come il profitto possa essere danneggiato da una fin troppo aggressiva politica industriale, e chi apre a progetti espansivi. Da qui nascono i coraggi a volte incoscienti, facili, effimeri e assolutamente di breve termine. Pare allora necessario, per le case automobilistiche, irrobustirsi, ognuna a suo modo, attraverso strade differenti.
Lo sport, ancora oggi, dimostra di essere il miglior veicolo di promozione e innovazione, non è una semplice vetrina, è il teatro o se vogliamo l’arena in cui prende forma plastica la più verace espressione plastica di un marchio; “la stanza dei bottoni” oggi è da ricercare in quello scenario emergente, ruggente dell’Asia, il quale potrebbe certamente rivelarsi il “deus ex machina” del WRC, che prenderebbe forma attraverso l’arrivo quasi “messianico” di Hyundai e qualcuno vocifera, Toyota.
Una già presunta diarchia VW-Hyundai è all’orizzonte?
Non sarà l’essenza del nostro articolo, ma sarà sicuramente l’elemento complementare di una giostra che gioca molto sul ruolo dualistico, allegorico, fra novità e conservazione, fra chi è radicato e chi che deve porre i propri germogli: un’architettura psicologica fortemente improntata alla neutralizzazione dei valori in campo, in uno scontro euroasiatico. C’è il coraggio incosciente e facile di chi si getta in ambiziosi piani, segnati, in fondo, dall’assenza di una solida base economica che funga da serio e credibile supporto. Nella pratica, osserviamo la tendenza europea ad essere periferia di un mercato globale dai volumi ben più ampi e di come, inesorabilmente, la sua funzione di culla della cultura automobilistica non sia più sufficiente. I leoni asiatici sono l’emblema più limpido di questa tendenza, alla quale resistono solo le case più internazionalizzate, fra le quali VW, appunto.
Una visione “olistica” del mercato: Toyota lo domina, Hyundai rugge
E’ vero, a volte ci sono parametri che non si possono misurare: i dati e i numeri possono offrire un “prospetto” erroneo, impreciso, insomma, non corretto. Tuttavia, hanno un valore almeno sul piano sintomatico indubbio, descrivono una tendenza “gaussiana” nel mercato delle automobili, quel “benchmark” così usato e abusato in finanza, che costituisce un riferimento sicuro e valido per investimenti. Oggi le case svolgono essenzialmente questo, soddisfano gli umori non propriamente stabili, bensì alquanto mutevoli, degli acquirenti, con cicli piuttosto brevi. La tradizione innata, però, di innovare, di vincere con le ricette che non solo sintetizzano i gusti, ma sono anche capaci di proporre con una velocità sorprendente soluzioni adeguate alle facce della società che cambia. Oggi il mito del “green” è quasi un tabù; nel contempo, si tratta di correre. Questo è senza dubbio l’elemento-novità nell’automobilismo contemporaneo, che dal suo canto non può non servirsi dello sport; si palesa, dunque, la superiorità netta e piantata della Toyota, leader nel 2012, con 9,7 milioni di unità, con un Giappone che morde grazie anche ai successi di Nissan e Honda. Al secondo posto c’è GM, con 9,2 milioni e in robusta ripresa nel primo semestre 2013; terza Volkswagen, colosso europeo in evidenza grazie all’ampiezza dei suoi successi in tutti gli angoli del mondo. Segue un terzetto composto da Renault-Nissan, con 8,1 milioni e Hyundai Kia con 7,1 milioni, vantando una crescita energica (+8%) rispetto al 2011. Seguono Ford a quota 5,6 milioni, Fiat-Chrysler a 4,2 milioni di esemplari venduti, Honda, Peugeot Citroen e Suzuki.
Nella prima metà del 2013, si profila un quadro analogo, ad eccezione delle case coreane, che giocano il ruolo più bellicoso, aumentando regolarmente il proprio volume; una soglia, quella varcata da Hyundai e Toyota, che non può lasciare indifferenti, perché tali stime esprimono anche il valore umano, si traducono in un significato ben più ampio. Una “piantina” degli equilibri geoeconomici certamente non rivelatrice, ma sicuramente foriera e preconizzante di un trend importante. E di conseguenza, le due case, non potevano che mobilitarsi….
Giappone e Corea del Sud: “il seme del drago”
Con l’avvento della casa coreana nel mondiale rally, si è andati a toccare il tasto, particolarmente sensibile, della reminiscenza, il pensiero, il ricordo insito negli appassionati, in fondo particolarmente lucido, dal momento in cui il primo esordio Hyundai risale a poco più di dieci anni fa. Si infiamma la memoria, intervengono le parti dei due emisferi del cervello, razionale ed irrazionale: la realtà, tuttavia, si trova su un altro piano di veduta. E’ semplicemente
privo di qualsiasi senso compiuto il pensare di confondere due sezioni del WRC in una miscela assolutamente eterogenea. Ed è, anzi, proprio quel fattore velocità, di cui si parlava sopra, ad implicare una sorta di cambiamento “fluttuante”, repentine inversioni di marcia, frutto della “economic globalization”, locuzione entrata ormai universalmente nel linguaggio comune, a testimonianza proprio del significato collettivo, complessivo di questa inclinazione. Il ruolo della tigre, oggi, è noto, lo giocano soprattutto le grandi nazioni asiatiche, ma non dimentichiamo le due tigri dei decenni scorsi, risvegliatesi dopo una parentesi di letargo ad inizio anni 2000. Neppure in via del tutto parallela, si vede rispuntare, con veemenza, la tradizione automobilistica hi-tech giapponese, con la grinta di sempre, accanto alla più giovane Corea del Sud, ancora alla ricerca di una vera e stabile identità. Due gioielli del liberismo che si manifestano, così, in un panorama di tinte vivaci, con la svolta impressa da Hyundai, che ha rotto gli indugi, ha preso in mano le redini, fa il mestiere dell’auriga, mediatore fra istanze più estreme e moderate. Nei fatti, viene piantato dalla casa coreana quel “seme” che dovrebbe far germogliare nuovamente il culto orientale dell’automobilismo, inaridito dopo l’abbandono di Subaru nel 2008. Definiamo la casa coreana un auriga in virtù di quel coraggio, fatto di consistenza, di presa con la realtà e di maturata consapevolezza delle proprie risorse umane, economiche, materiali e di know how. Ci sono gli ingredienti per compiere un salto di qualità, con obiettivi ambiziosi, per affermare nella sua pienezza prestigio ed autorevolezza di una casa particolarmente giovane. Si vuole trasmettere un sogno all’occidentale, perché in fondo questo è un prodotto dell’ottimismo del post dopoguerra di influenza statunitense, rivisitato in chiave moderna: una fusione di intraprendenza e giovanilismo, che muta in una cellula di successo individuale e collettivo. Ciò che mancava nel 2000 era l’universalità del suo successo, una popolarità estesa e forse perfino un volto nuovo, capace di trascinare dalla carta alla prova speciale i risultati. Mancava quella sorta di “investitura” degli appassionati che oggi è molto più forte, consistente, il diritto di rappresentare una porzione di mondo competitiva nello sport, come seconda forza centrifuga del campionato, dopo VW; il progetto è curato, raffinato, dal piano del marketing fino a quello tecnico, anche se la parola finale spetterà alla pista. Paradossalmente, la certezza maggiore si fonda proprio sul fatto che Hyundai, semplicemente, non potrà fallire, a partire dagli intenti a lungo termine. D’altronde, il regolamento, in vigore dal 2011, è una perla della FIA, che non può che essere la calamita di ulteriori ingressi, presenta la giusta dose di flessibilità e dinamicità che serve ad un WRC in chiaroscuro. Recentemente, è stato caldeggiato, anche da fonti autorevoli, l’entrata della Toyota, annunciando addirittura partnership con preparatori nostrani; evidentemente, è uno stimolo chiaro e ben mirato, ma si discosta, almeno in parte, dalla realtà. Nonostante la propensione economica, essendo la casa giapponese in uno stato di salute ottimo, ci sono anche esigenze in materia di ricerca e tecnologia, oltre che di riduzione dei costi, capitali. Lo stesso Nandan ne dichiarò, durante la presentazione della i20, la vitalità, attestando il frangente di grande prosperità della serie rally. Ma quando si riparte da un foglio bianco, così come si possono scrivere le migliori poesie, si sfida il proprio apparato, cimentandosi in un pericolo non irrilevante, tastando le punte estreme dei propri limiti espansivi. Considerato l’impegno di Toyota nel FIA WEC, con risultati altalenanti, ma comunque positivi, pare avvenato lanciarsi in pronostici circa il suo ritorno nel WRC, con un prototipo da ridisegnare e una nuova architettura del propulsore da proporre. Su questo punto di vista, bisogna essere cauti e prudenti, è qui, più che altrove, che la finezza regolamentare si manifesta, così come l’espressione tecnologica di una serie in cui deve tuttora riscattare molto.
2014, prova del nove di un télos ineluttabile
Giungiamo alle conclusioni, chiudendo il cerchio, proprio a partire dal titolo. Il “coraggio da investire” è la prima munizione di cui dovrà usufruire la squadra coreana. Supponiamo, ma non è dato certo, che il budget sia inferiore a quello Volkswagen e che d’altronde ripetere il colpo della casa tedesca nella serie appare difficile, nel merito e nel metodo della questione, vista la minuziosa preparazione della Polo, curata per lungo tempo con perizia quasi unica, e per ipotesi, abbiamo considerato le risorse economiche VW maggiori. E consideriamo dunque l’approccio la chiave del successo, segnato da un profondo rigore “alla tedesca”. Ogni squadra affronta e tratta un problema attraverso diverse vie, proponendo soluzioni particolarmente alternative. Ed è anche certo che operosità ed umiltà sono due prerequisiti tanto indispensabili quanto insufficienti, perché una dose di ambizione deve essere sempre insita nel costruttore. Vogliamo, tuttavia, individuare nel progetto coreano (condito con molto know-how europeo…) una bontà endemica, esclusiva, una combinazione abbastanza inedita di sincretismo culturale fra tecnica e cultura dell’auto fra oriente e occidente. Sul piatto commerciale, è indubbio infatti che i coreani offrono quell’apertura ed esposizione al mercato internazionale, che è frutto di quel valore aggiunto, il coraggio non scontato, forse ineffabile in quanto apporto prezioso, ma non circoscrivibile. Il cosiddetto “asso nella manica”, per esacerbare la propria funzione nella bilancia degli equilibri del mercato automobilistico. Una mescolanza di rischio, ma ponderato nei confini della ragionevolezza e della consapevolezza delle proprie possibilità; la percezione di poter giocare il ruolo degli antileader, in funzione antitetica alla già rinsaldata padrona della serie.
Appare dunque chiara l’inevitabilità della “salita” verso l’apice delle categorie sportive, un passaggio obbligato, un sentiero sicuramente impervio ma ad alto rendimento, perché “i grandi”, potremmo dire le “New Seven sisters”, non del petrolio, bensì del settore automotive, appartengono ad un ramo non più fragile, ma sempre più fiorente e solido. Un telos, pertanto, che parte con le premesse dell’irreversibilità, giacché non può essere altrimenti per Hyundai: se il 2014 non sarà una prova del nove, sarà quantomeno una posa dei germogli, per far fiorire una creatura duttile, resistente, nonché irriducibile di fronte alle numerose avversità del WRC. –E’ noto- il rovesciamento dei valori del mondiale rende esposta la serie alle “tempeste perfette”.
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