Torniamo a parlare di Dakar. Le avventure che si possono raccontare sono davvero moltissime e piano piano vogliamo farvele conoscere tutte. Già dalle origini della corsa, i mezzi utilizzati in gara sono stati i più disparati; basti pensare alle Renault 4 a due ruote motrici, alle Vespa e tantissimi altri. Negli anni il prestigio di questo grande evento è aumentato esponenzialmente richiamando alle armi alcuni tra i più grandi produttori di auto. Quest’oggi è il turno di una vettura che ha scritto un piccolo paragrafo di storia nel deserto africano, insieme al pilota più vincente: Stephane Peterhansel. Alla fine degli anni ’90 impazzava il potere Mitsubishi. L’unico che poteva contrastarlo era un signore di nome Jean-Louis Schlesser, il quale creò un buggy a due ruote motrici motorizzato Renault per correre la Dakar. L’astuto francese era anche membro della federazione automobilistica, e riuscì a plasmare il regolamento per poter avvantaggiare il proprio mezzo. Alcune delle postille esplicavano che i mezzi 4×4 non potevano essere dotati del sistema di gonfiaggio/sgonfiaggio delle gomme e soprattutto non era più permessa la sovralimentazione dei motori. L’ultima batosta arrivò con le restrizioni di carreggiata e pertanto Mitsubishi si trovò bloccata sullo sviluppo del Pajero – riuscirà comunque nel 2001 a riscattarsi ndr -.
Stephane Peterhansel, come abbiamo visto nella sua biografia di pilota, nel 1999 passò alle auto con il Team Dessaude a bordo di un Nissan Navara. Con il nuovo millennio il forte pilota si interessò ad un progetto tutto francese. La Mega Desert, prodotta dall’Aixam. Non vi è nuovo questo nome? Infatti il colosso francese è colui che produce sin dal 1983 quadricicli leggeri utilizzabili con la patente del ciclomotore. Mega, detto volgarmente, era la divisione sportiva che ebbe gran successo a fine anni ’90 e inizio ’00. La scocca di partenza era niente poco di meno che una piccola utilitaria, somigliante nelle fattezze ad una Austin Metro. Tuttavia gli utilizzi furono dei più disparati; passando da un prototipo con motore V12, alle corse su ghiaccio fino all’arrivo nel deserto. Il regolamento fu spulciato e verificato filo e per segno per poter usufruire di ragionevoli dubbi e lacune. Al tempo non vi era alcuna restrizione sul peso, così venne costruito da zero un telaio dal team SBM ovvero colui che prese in mano il progetto. La combinazione di Kevlar e Fibra di Carbonio permise alla Mega Desert di essere 200kg più leggera rispetto ad un Mitsubishi ufficiale. Di quest’ultimo inoltre venne prelevato il potente 3.5L V6 e montato sotto il cofano in fibra di vetro. Il binomio fu esplosivo. La parte riguardante la ciclistica fu innovativa: se gli altri mezzi in gara utilizzavano solo una sospensione per ruota, alla Mega decisero di utilizzarne due. Le sospensioni a gas furono accoppiate medianti gli stessi attacchi, producendo su misura barre trasversali che gli permisero di far lavorare all’unisono sullo stesso punto d’appoggio le due sospensioni. Le escursioni da oltre duecento millimentri, rendevano la vettura estremamente agile e stabile su tratti veloci e sconnessi.
Il finale al Cairo della Dakar 2000 lo conosciamo tutti. Dopo un duello estenuante con il Buggy Schlesser, la Mega riuscì a concludere al secondo posto. I prospetti per poter fare bene c’erano tutti, ma…c’è stato un ma. Con l’arrivo del 2001 l’organizzazione decise di bandire i telai-prototipo, ovvero quelli facenti parte della categoria T3 (categoria in piena forma ad inizio ’90 con la famosa Citroen ZX e Mitsubishi Pajero Proto). Oltre a non avere più un’auto per partecipare, Aixam si trovò a dover sborsare un budget esorbitante per poter sviluppare una nuova vettura. Per questo motivo il progetto morì solo dopo un anno. Sei anni più tardi, con l’aiuto di Stephane Peterhansel, Andrea Mayer (copilota di Jutta Kleinschmidt), si presentò all’Abu Dhabi Desert Challenge con la Mega. Equipaggiata con pneumatici di nuova generazione, risultò ancora competitiva dando del filo da torcere anche al più nuovo e tecnologico BMW X3CC.