Sarà un caso. In fin dei conti non è la prima volta che un pilota a fine carriera si “ricicla” –non tradisca l’accezione negativa- nei rally raid. Più probabilmente, qualcosa sta veramente cambiando. Si cominciano a vedere i piloti dei rally raid fare il mestiere che non hanno mai fatto. Nani Roma su tutti, ma anche De Villiers, che ha cominciato a mettersi in nota nel campionato sudafricano. E viceversa.
Il cruccio della Dakar Loeb ce l’ha sempre avuto. Come in tanti, d’altronde. Se nello stesso anno però si presentano Hirvonen, Sainz, Al Attiyah e il già citato Loeb, forse c’è un qualcosa in più da decodificare, quel qualcosa che va oltre il mero “capriccio” –ci sia concessa l’espressione- di un personaggio-simbolo del brand. Sono competenze nuove che servono, in cui i grandi della Dakar –anche Peterhansel- qualche lacuna la mostrano.
Per una volta è il rapporto ad essere opposto. Sono le case a cercare i piloti, non viceversa. E sin dall’inizio dell’epoca sudamericana, la Dakar è cambiata. Richiede un know how totalmente differente. Che certo non è gradito dai puristi. Troppo veloce, dicono. Impoverisce il valore della navigazione, borbotta qualcun altro. In effetti, c’è molti di vero in tutto questo.
Se da un lato c’è un Despres che, passato da oltre un anno dalle moto alle auto, non è riuscito a trovare ancora la quadratura del cerchio, dall’altro c’è un Hirvonen già tonico. Che già fa le prime prove di avvicinamento: il debutto alla Baja Aragon è stato un successo indubbio.
La preparazione alla Dakar, fino alla primavera, si è svolta regolarmente. In fin dei conti, il ritorno del Perù avrebbe potuto davvero riscrivere la storia degli ultimi anni del rally raid. Ed è anche il motivo per il quale Peugeot ci ha creduto fino in fondo. Poi la rapida successione di eventi: la rinuncia del Perù, il rischio di annullamento della gara e infine un accordo in extremis. Che tuttavia stravolge il profilo dell’evento, sul profilo geografico e sportivo. Tutto a favore dei quattro ruote motrici.
C’è di più, evidentemente. Il nuovo disegno non solo è povero di tratti sabbiosi –che già costituisce primo fattore di sbilanciamento- ma anche di percorsi veloci e aperti. Restano poche tappe con fondo “rough”. Ma è del tutto insufficiente, naturalmente, per chi si presenta con un due ruote motrici. Specie se il ruolo della navigazione da rally raid viene smussato, per usare un eufemismo. Azzerando, o quasi, il ruolo strategico, la pianificazione, l’azzardo.
Non vi è dubbio che l’episodio del 2016 sia del tutto eccezionale. Ma la svolta –non gradita dai piloti- è già un fatto compiuto. E non certo da poco tempo. La velocità media è cresciuta di anno in anno, mettendo nel cassetto la tradizione delle lunghe e più originali navigazioni “alla africana”.
Resta l’unico colpo in canna, che è proprio quello dei piloti WRC. L’anno scorso Holowczyc fece il pieno di tappe nel finale, battendo tutti nelle prove “flash” nel finale nella pampa umida. Qualcuno malignò, qualcun altro fece notare che il navigatore era Xavier Panseri, di riconosciuta e affermata esperienza sì, ma non di sicuro alla Dakar. E soprattutto a vincere il trofeo fu Al Attiyah.
La questione, insomma, è tutta lì. Lo sviluppo serrato della 2008 DKR tradisce uno stato d’animo tutt’altro che ottimo: i francesi hanno le armi spuntate. Proprio quando, fino all’estate, il rapporto di forze in campo appariva opposto. I venti si sono spostati dall’altra parte, repentinamente. La versione 2015 della 2008 DKR era senza alcun dubbio acerba, a tratti estrema. Coerente con un progetto inedito, dotato delle giuste energie per uscire dalle righe, forte anche delle sicurezze di un team robusto. Magari troppe. I difetti, in effetti, non hanno tardato a manifestarsi. Senza troppa caparbietà, è stato allora ripensato il telaio, mediante un allargamento della carreggiata ed un allungamento del passo, affianco ad una riduzione degli sbalzi. Il fine è quelle di contenere il rollio, migliorare la rigidezza complessiva, ridurre le masse sospese e quindi il momento polare d’inerzia (che in una Dakar sempre più veloce ha un’incidenza particolarmente rilevante) e ridurre i trasferimenti di carico che su una TP si manifestano bruscamente.
Sono quella serie di problemi macroscopici che si evidenziano subito, che vengono immediatamente percepiti dai piloti; la vettura risponde male alle modifiche perché è mal bilanciata di natura. Questo è quel che accade in generale. Per Peugeot, si è trattato di “moderare” il progetto iniziale. Non abbandonando –giustamente- il V6 biturbo a diesel. Non è irrilevante sottolinearlo, considerate le voci che si erano sparse di un possibile passaggio all’alimentazione a benzina. La compattezza longitudinale di un V6 a 72° offre notevoli vantaggi, specie una volta ponderati i limiti di un L6 –ben rappresentato dalla concorrenza, insomma- in quanto ad ingombri.
Tutte queste considerazioni impattano contro molti interrogativi, a partire dallo stato attuale delle cose. Che davvero non concede niente ai francesi.
Il fil rouge per comprendere la Dakar resta solo uno. E’ sempre quello, che supera di gran lunga tutte le considerazioni di rito che si possono fare. Perché non bastano gli strumenti adatti a raddrizzare un trend ormai chiaro da anni. E alla fin fine, nemmeno il potere politico di cui può farsi fregio la Casa del Leone alla corte di ASO. Basta un fazzoletto in più o in meno di sabbia a fare la differenza.
Non è esattamente quel che si aspettavano i francesi nel 2014, quando annunciarono a gran voce il loro ingresso alla Dakar. Uno di quelli lampo, si diceva. Due, massimo tre anni, con il bottino più ricco possibile. Non è andata così. Anzi, si è resa necessaria una nuova iniezione di risorse. Che, con tutta probabilità, non sarà sufficiente. E invece dall’altra parte del fronte si brinda, quanto basta per sottolineare la sensibilità dei meccanismi della Dakar. Che piacciano o meno, a noi non sta giudicare.
Sulla parte che andrà a rivestire Loeb –mediaticamente parlando- non faremo cenno. Anche perché di certo non andrà a vestire i panni della comparsa. E poi Loeb non è solo il pluricampione, ma è anche un riferimento. Di metodo, di lucidità, di analisi. Nessuno crederà che l’alsaziano ci andrà per divertirsi, come sono soliti esprimersi i piloti. Certo, quello della vittoria è un vero grattacapo. Prima della Peugeot. Poi di Loeb. E poi si sa, quando si debutta, non si ha da difendere prestigio alcuno. Il vero nodo è quello della squadra: vuole fare presto, ma si è messo di traverso il Cile, seguito dal Perù. Come se non bastasse, il nuovo tracciato è il peggior nemico della Casa del Leone.
A questo punto si fa dura. La Peugeot ha giocato la carta Loeb, se così possiamo chiamarla, assecondando fra l’altro un desiderio del pilota stesso. Ma è una di quelle scelte fatte a scatola chiusa, che non danno garanzie. Proprio quel di cui avrebbero bisogno, giacché l’unica vera punta, su cui non si può nutrire riserbo, è Peterhansel. Poco, per un team che schiera quattro vetture, il quale, dal suo canto, deve ancora “allevare” Despres, da cui ci aspettava un passaggio meno “traumatico” dalle moto alle auto. Ed è da troppo tempo che Sainz non può più fare la prima guida. Ha sbagliato tanto, troppo per prendersi i galloni da titolare.
Insomma –si è capito- Peugeot non ha puntato sull’usato sicuro. E’ tuttavia eloquente che il destino della loro gara non dipenderà da Loeb. E se vogliamo, neanche troppo dalle sue vetture, a cui si può chiedere di più che in passato. L’unica variabile impazzita è quella tracciata dagli organizzatori. Gli altri sono fattori fisiologici: la Casa del Leone ha deciso intanto cosa fare da grande. Ma si mettano da parte i progetti di gloria in tempi rapidi, hic et nunc.