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Quella dell’ultimo fine settimana –vuoi per il Montecarlo, vuoi per il duello storico- è stata una delle più belle pagine del WRC, di quelle che mancano da tanti, troppi anni. E’ una di quelle pagine da antologia che creano un precedente, che non si possono rinchiudere in un’analisi rigorosa, che non dicono nulla delle persone e del mondo del mondiale. E non importa se è stata una tripletta Volkswagen. Va bene la tecnica, ma si sa –il rally non è fatto di tecnica, è fatto di persone- a parte la tecnica.
Allora non rimane davvero che il Montecarlo e i due Sebastien. Attorno, il nulla (o quasi). Non può bastare il duello sublime –appena sette prove- che ha deliziato tutti.
Per due anni, dall’addio (o arrivederci?) di Loeb, si è parlato eccessivamente di squadre e fin troppo poco di piloti. Non neghiamo una dimensione tecnica al mondiale: siamo consci di quanto un’attività ridotta al lavoro di lima sia anche una delle più fini. Sappiamo quanto lo studio della cinematica e della meccanica dello oscillazioni sia un tema raffinato. E fa bene Citroen a credere che una vettura più sincera –troppo rigida sin da quando ha debuttato la DS3- più morbida sia una delle chiavi per tornare protagonisti. Ma il problema vero è di tutt’altra natura.
Dopo appena due mesi, si è tornati subito a correre. Di aspettative ce ne sono sempre state poche, già da novembre. Primi fra tutti, i coreani: sono loro il nuovo che avanza e gli unici a poter controbilanciare il dominio Volkswagen. Non abbiamo certezze circa l’impegno a medio termine di Ford e Citroen, nonostante le dichiarazioni. Ma la Hyundai era ed è in ritardo: l’ambizione c’è ancora, ma dopo un anno di WRC questo non basta. La disillusione dei piloti era prima nel volto, poi nelle parole post-shakedown, infine nei risultati. Troppo poco il traguardo, così come un quinto-sesto che lascia a bocca asciutta. La i20 coupé arriverà fra la primavera e l’estate, ma nel frattempo si perderà un’altra stagione, senza avere neppure garanzie di successo. Unica soddisfazione, un’affidabilità finalmente trovata: il grande cruccio della Hyundai parrebbe risolto.
Questo non cambia l’ordine delle cose: si modifica continuamente il camber, il caster, l’angolo di Ackermann, ma l’i20 resta ingessata, si vede subito. Fa una fatica tremenda nel trasferimento di carico, il trasferimento di peso longitudinale soffre di un baricentro alto e si evidenzia subito in accelerazione. Neuville non ha fatto altro che insistere sull’overheating delle sue gomme: è un segnale.
M-Sport ci ha provato, ha confidato in una maturazione di Evans e Tanak, tentando di cancellare una stagione, quella 2014, davvero fosca. Ha scelto due piloti profondamente diversi, nel metodo, nel temperamento e anche nella provenienza. Wilson crede molto ad un progetto giovanile, nella speranza che un improvvisatore qual è l’estone possa quantomeno “fare il bastone fra le ruote” della Volkswagen. Ma siamo convinti che -Hyundai a parte- non sia sufficiente ragionare in questi termini. Tanto per la coppia Ford quanto per quella Citroen. Scandagliare il valore tecnico può andare bene, ci può stare per un rally “scolastico” (ma meno emozionante…) come l’Alsazia, ma a Montecarlo tutto questo ha dei limiti. Non avrebbe neppure senso analizzare i cronometri: la fisarmonica dei distacchi è qualcosa di indescrivibile, che non si può ingabbiare. Qui ritroviamo il Monte, qui ritroviamo l’essenza, la materia del WRC.
Ma si sa, un calendario non è fatto solo di grandi classici. Allora ci si affida a quel che offre il parco partenti. Ed è qui l’inghippo: finita quella sottile euforia di inizio stagione ci si accorge poi che i due Seb sono stati davvero totalizzanti. E quando ne resterà uno solo, sarà ancora il solito e prolisso monologo. La candela rischia di spegnersi troppo presto e di portare con sé quell’entusiasmo che aveva trascinato il nove volte campione. Il mondiale non può affidarsi ad una “stampella” per provare a mantenersi in piedi: il Montecarlo ha messo a nudo una verità che se era già chiara tutti, ora ha avuto anche la sua dimostrazione. Manca “il fattore umano”, per citare Greene, molto prima delle vetture. Servono piloti che lasciano il segno, qualcuno che sia più del famigerato “buon pilota”. Non bastano gli Ostberg, i Meeke, i Mikkelsen –per quanto talentuosi e capaci- e non servono neppure dei Kubica, dei Tanak o dei Latvala in interessante progresso ma poco calzanti ad una sfida che se non è Davide contro Golia poco ci manca. C’è una fortezza, Ogier, che di punti deboli ne ha davvero pochi. Ma ne ha, anche lui.
E per quanto riguarda il pubblico, “si può portare il cavallo alla fonte, ma non costringerlo a bere”: il live può allacciare meglio l’audience, ma che cos’è il WRC senza protagonisti?
Un palco senza attori. E non si può fingere: non c’è nessuno –ma proprio nessuno- pronto a confrontarsi con Ogier, neanche in casa Volkswagen, nemmeno Latvala.
Non vorremmo finire per accontentarci della regoletta made in FIA, che magari consegnerà a qualcuno (Citroen?) qualche successo di quelli così-così, che sanno di insulso, magari in Messico o in Sardegna. O forse finiremo per accontentarci e saziarci di un terzo di Montecarlo scoppiettante, dimenticandoci che il dominio tedesco stronca qualsiasi apertura a nuovi scenari?
Ad essere sotto accusa non è nient’altro che una carente politica giovanile: i nomi sono sempre quelli, si ricicla Tanak, si pensiona Hirvonen, non si osa neppure guardare alle categorie minori –che sarebbero anche tante- lasciando uno strato di piloti al pascolo nell’anticamera del WRC.
Si può anche credere che al cospetto dei due Sebastien il resto dello schieramento sia misero: vero, però è molto più miope e piccina la visuale di chi crede che vada bene così. Quanti piloti vengono letteralmente bruciati, magari facendoli salire su una WRC troppo presto?
Il duello Ogier-Loeb è una delizia, ma sarebbe pure venuto il momento di ricordarsi che mancano dodici appuntamenti; con un Ogier in solitaria, si rischia l’asfissia: non vorremmo che a prevalere sia la noia…
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