Il racconto della tredicesima tappa anziché evidenziarsi per l’azione, è un filo che già collega l’edizione 2015 con quella del prossimo anno. Ormai le spalle sono già rivolte a quanto accaduto quest’anno per guardare allo sviluppo di vicende che potrebbero portare importanti mutamenti alla storia della Dakar.
Poi dobbiamo anche dire che oggi non è successo nulla, nei fatti. E anche se la tappa fosse stata disputata completamente, nulla avrebbe potuto cambiare il volto della gara.
Un violento nubifragio ha portato infatti l’organizzazione a tagliare drasticamente il percorso con valenza agonistica ad appena 34 km per auto e camion, 101 km per moto e quad.
Segnaliamo sulle moto un altro successo di Jakes (KTM Replica) davanti a Price e Goncalves. Segue Coma, che evidentemente non ha smesso di tenere un buon ritmo neanche oggi e Svitko.
Lo spagnolo giunge così a ben cinque successi sulle moto: ne manca una per arrivare al record di Peterhansel e due per replicare il record di vittorie in una qualsiasi categoria di Chagin (sette).
Al di là delle statistiche, quel che è conta è che Coma ha messo in pratica il suo solito metodo, senza forzare mai quanto Barreda Bort e attendendo, prima di avanzare una prima mossa, che quest’ultimo cedesse il passo. E il fatto che la Honda sia dovuta ricorrere alla sostituzione del motore, dice molto di come sia stato uno scontro ancor prima di squadre che di piloti. Forse, per Goncalves, quei quindici minuti sono stati fatali, problemi di Barreda a parte, che anche quest’anno rimane a mani vuote, senza neppure un podio.
E’ stata anche la Dakar dei giovani: il terzo posto di Price è una bandiera per “i cadetti”. Se l’australiano, al debutto, è riuscito a cimentarsi in modo così eccellente nel ginepraio della Dakar –mettendosi in evidenza soprattutto nella navigazione- con una KTM Replica, significa che c’è ancora molto spazio per tutti. Magari non per gli amatori, che soffrono molto i distacchi contenuti fra i professionisti e il numero esiguo di tappe da navigazione, più che da enduro. Troppo facile, però, lamentarsi, dicendo che la Dakar è troppo dura, salvo poi rimangiarsi tutto qualche giorno dopo. Nel finale, bisogna riconoscere che ASO ha concesso a tutti i piloti di tirare un sospiro di sollievo, con tappe tecniche, poco impegnative per la meccanica e con arrivi al bivacco anticipati.
Una piccola gioia in una Dakar di sole sofferenze l’ha avuta Robby Gordon, che ha fatto di tutto pur di vincere l’ultima tappa, riuscendoci alla perfezione e staccando in una PS da WRC Poulter di ben mezzo minuto. A ruota segue Spataro sulla sempre vivace Duster.
La vittoria di Al Attiyah –la seconda Dakar in carriera- qualcosa significa: cambiano i piloti, non cambia la natura della gara. E a dominare sono sempre i 4WD. Nonostante l’ottimismo -per la verità ambiguo- di Peterhansel, il fatto che non ci sia nemmeno una Peugeot in top ten non può non creare qualche dubbio. L’affidabilità ha bisogno del tempo, ma tutti si sono ormai accorti che l’installazione centrale del motore è davvero troppo problematica e irta di imprevisti. Molto interessanti anche le prestazioni delle Toyota, che hanno rivalutato gli aspirati a benzina alla Dakar, grazie a una coppia subito disponibile ai bassi regimi, con De Villiers secondo. Sul podio finisce anche Holowczyc, davanti a Van Loon e Vasilyev, autori di due performance interessanti.
Oggi vince di nuovo Stacey sui camion, infilando il terzo successo di fila con Iveco, davanti a Van Vliet, Mardeev e Sotnikov.
Ad affascinare è proprio la storia di Ayrat Mardeev, che come tutti i drivers del team Kamaz Master si fa le ossa come meccanico prima di diventare pilota di uno dei quattro camion. Così è stato per Ayrat -nato proprio nella città di fondazione del marchio- che ha raccolto l’eredità del padre Ilgizar, altra stella Kamaz del passato, morto recentemente a causa di un incidente. Si può dedurre facilmente a chi sia stata rivolta la dedica: la Dakar sa essere toccante ed è fatta anche di trame semplici, non certo da riflettori. La fama e la dignità del rally raid più famoso del mondo è nelle persone che lo vivono, che coltivano una passione con rigore e modestia.
E i russi, per la verità non così amati dai rivali per un atteggiamento un po’ imperioso in gara, alla fine sanno farsi apprezzare, sempre. Portando sul podio anche Nikolaev, che rinuncia al successo ma non all’onore e Karginov, che non si riconferma vincitore ma torna sul podio. Quarto un mesto Loprais, che sognava il podio e si accontenta di un quarto posto, appena davanti a Sotnikov e Stacey.
In casa de Rooy l’umore nero è stato solo addolcito dai ben quattro successi di tappa: bisognerà riflettere molto su quanto è stato fatto e quanto si deve ancora fare per tornare a vincere. Non si dovrà nemmeno escludere una riorganizzazione della squadra. Anche perché solo Iveco è riuscita ad offrire un prodotto confrontabile a Kamaz: interrompere la partnership sarebbe privo di senso.
In questo intreccio di vicende, non evaporano le polemiche: un percorso poco equilibrato, un road book carente di segnalazioni, la volontà di ASO di non aderire alle richieste dei piloti, almeno secondo questi ultimi. L’organizzazione ritiene infatti di aver agito anche in virtù dei feedback dei piloti. Una doppia verità che difficilmente verrà sciolta, ma che ha creato tensioni, con il possibile addio di Castera, che abbandonerebbe la direzione tecnica della gara. Si perderebbe la competenza di una persona che ha saputo rilanciare un prodotto attraverso l’apertura a nuove frontiere e nuove possibilità.
Apprezziamo l’idea –con il senno di poi- di una riorganizzazione del percorso. Il Perù sembra manifestare grande interesse alla Dakar, mentre il Cile pare intenzionato a defilarsi. Al di là di un totale stravolgimento, per il quale non pare il momento adatto, un rientro del Perù potrebbe ridare alla Dakar ciò che è mancato all’edizione 2015. La sabbia, la navigazione. Le sue dune sono fra le più difficili e ripide: un tocco che davvero manca. E magari, perché no, considerare di incrementare la difficoltà anziché diminuirla, in modo progressivo: le prime tappe hanno “falciato” una miriade di concorrenti, insipidendo l’evento. Sarebbe meglio lasciare le giornate più dure e lunghe all’ultima settimana, non il contrario…