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Torna l’anello. Torna Buenos Aires. Il percorso 2015 ridisegna l’impianto della Dakar ripescando un po’ di elementi da ogni edizione, rimettendo insieme il meglio per raggiungere un equilibrio finora troppo lontano.
Nel 2013 si è percorsa una Dakar che dell’Odissea –così è stato chiamato il rally raid- non aveva molto. Percorsi tecnici, selezionati, conditi dal solito fesh fesh: troppa la sabbia e soprattutto infilata nel posto sbagliato, ad inizio gara. Finì per stroncare uno spettacolo già infiacchito da prove speciali troppo corte.
E il valore del logorio, della stanchezza e delle energie che vengono meno, macchina e uomo uniti in un’unica dimensione furono ridimensionate.
E forse per riparare un danno troppo grande, ASO calcò troppo la mano, con un percorso affascinante, amarcord, una Dakar per piloti puntuti. Nel 2014 la selezione fu malvagia -quasi punitiva- nei confronti degli amatori: anche fisicamente, quel percorso era insostenibile. Si apportarono dei tagli e delle correzioni, dal momento in cui la carovana si muoveva con eccessiva lentezza: trascinare i debuttanti al bivacco era opera ardua.
Si è giunti così al compromesso (a prima vista) ottimale di quest’anno, che va a rivalutare Buenos Aires nell’economia generale della gara: è il polo attorno al quale la gara potrà attrarre ancora più popolarità e successo. Difficile, per ASO, dimenticare i primi anni, con una concentrazione di spettatori più unica che rara. Non c’è nel percorso la buccia vizza e scialba del frutto che è maturato troppo tardi, non c’è grossolanità. E’ un’armonia che si avvicina, c’è una raffinatezza sempre maggiore nell’intagliare un tracciato comunque problematico. Altrimenti non sarebbe Dakar, che sia chiaro.
Come al solito, la prima tappa (Domenica 4 gennaio) è un prologo isolato, una cellula a sé stante, un percorso sterrato di 170 km con sede stradale larga e veloce, che porterà da Buenos Aires a Villa Carlos Paz Saranno ben 663 i km di trasferimento.
Fino a sabato 10 gennaio ci sarà invece la passerella dei grandi classici, quelle portate indispensabili che fanno il menu della gara, quegli elementi di tradizione ampiamente apprezzati di cui nessuno vuole fare meno. La San Juan-Chilechito, la Chilechito-Copiapò che porta in Cile, la Copiapò-Antofagasta e la Antofagasta-Iquique sono le quattro perle della Dakar. Un equilibrio contenutistico perfetto: c’è il fesh fesh e non manca la sabbia. La “compattezza”, tuttavia, non implica semplicità: la promiscuità della prima fase prevede anche canyon e rio. Il percorso raggiunge subito le Ande e le sue maggiori vette. Una selezione per così dire “graduata”, senza arrivare subito alla tagliola che ammazza spettacolo e speranze. Certo è che con tappe che viaggiano da 500 km ai 220 -ma la media è sui 350 a giornata- si può proteggere la vivacità della gara senza sterminarla.
Cambia invece in modo radicale la tonalità della seconda fase, improntata ad un riassemblaggio di alcune componenti del lontano 2009 e di novità introdotte nel 2014, se vogliamo quasi a titolo sperimentale.
La Bolivia ha ricevuto la captatio benevolentiae di ASO e ha giustamente ambito ad un posto ben visibile della gara, accentuato, per così dire, dai riflettori di un momento cruciale. Sabato 10 gennaio infatti c’è il “tappone marathon”, privo di assistenza, per auto e camion, che porta a Uyuni: al di là delle “salate” suggestioni paesaggistiche, qui il tema della poliedricità si farà concreto. Da un lato, il terzo componente dell’equipaggio dei camion, nella tappa marathon, dovrà sostituire il lavoro di un’intera assistenza; dall’altro, fra le auto, spiccheranno i piloti più abili nella piccola manutenzione. L’altro piatto forte è la tecnicità del percorso, di poco più di 300 km, impegnativo per i camion (e per la trasmissione), stressante per le auto. A predominare per i primi sarà la sabbia e le dune.
Il giorno dopo, 11 gennaio, ci sarà quindi la prova di 781 km, spezzata a metà da un trasferimento, per le auto, mentre i camion si avventureranno in 271 km di sabbia. Si attraverseranno il Salar d’Uyuni e le temibili dune di Iquique, ma la vera novità è nella triplice suddivisione del percorso. Le moto seguiranno il percorso delle auto del giorno precedente, mentre il 12 –giorno di riposo per auto e camion- verrà compiuta la tappa di Iquique di 781 km. Esperimento contorto, ma di indubbia perizia. Ciò permetterà di distribuire e gestire agevolmente mezzi e persone, oltre che assegnare ad ogni categoria un tratto adeguato alle sue caratteristiche.
La ripartenza “collettiva”, il 13 gennaio, sottolinea simbolicamente l’inizio dell’ultima fase. Quella in cui si decide, una volta per tutte, che strada deve prendere l’evento. Ed è allora che sfilano le ultime due monumentali: la Iquique-Calama e la Calama-Salta. Qui si misura lo spessore del pilota, nella guida e nella gestione del road book: ci fu già in passato un’ecatombe. Ma la sfida si gioca tutta qui: salti, sabbia, piste disastrate. L’interpretazione giocherà un ruolo chiave.
Si chiude la Dakar con tre prove di nuova selezione, non del tutto originali, poiché viene “rieditato” qualche passaggio della Ruta 40 (che fa parte della Dakar Series); da mettere in evidenza anche l’attraversamento di Rosario, che ospitò la partenza 2014 e di Termas de Rio Hondo, dove è collocato il circuito che ospita MotoGP e WTCC.
IL PERCORSO IN SINTESI:
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