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Si fa retorica sullo scontro generazionale: lo stridere dei due piani, con tutto il suo carico saturo di banalità e semplificazioni in ambito agonistico, è qualcosa di fisiologico. E soprattutto, il problema della “successione”, quel turnover così agognato, così necessario e così attuale e scottante -fin troppo celebrato come “l’inevitabile”- diventa perfino un tema bollente nelle tortuose strade delle Fiandre. E se considerazioni di carattere morale si sono abbattute su questo aspetto fosco e ombroso, al termine del Rally di Ypres, semmai, le considerazioni fanno solo capo al sublime, all’estetica. Lo scontro-incontro è una pagina sportiva che si scrive a favore di un evento che, per una volta, ha messo di fronte due fili della storia che fanno difficoltà ad intrecciarsi. Senza troppi preziosismi, anzi, con decisione, fra il fatale e l’imperscrutabile, si sono inseriti nel duello, nello stesso campo, volti del rally di punta. D’altronde, difficile ostacolare un appuntamento che non ha nulla di accidentale: Ypres non è solo un crocevia, è una tentazione, è una calamita. Andiamo a scoprire come i vertici più puri e cristallini della competizione siano stati toccati in una gara che non ha eguali in quanto a qualità tecniche nella “galleria” europea.
Troppo facile o, se vogliamo, troppo scontato mettere da una parte i “padri e figli” di turgeneviana memoria, gli uni i conservatori della tradizione locale, nonché il ritrovato Rossetti e dall’altra gli arrembanti ufficiali Peugeot, che a prima vista si identificano come dei “mercenari”, ma anche l’eccellente Cherain, che ha sorpreso tutti.
Si è presentato un valore aggiunto ad Ypres, la sfaccettatura vivida e mai sbiadita di un contrasto generazionale d’onore, che non ha posto i “paletti della svolta”, altro che successione. E’ un aspetto da chiarire, che ben trova risposta nel più crudo confronto del WRC, dove l’uso di qualsiasi strumento o mezzo che dir si voglia, è lecito, anche a colpi di tattica che di sublime e di epos hanno ben poco. Pur di spodestare il rivale del trono, si è disposti a ricorrere a qualsiasi metodologia: ben impressa nell’immaginario collettivo degli appassionati è la stagione 2011 del mondiale, con il confronto interno a Citroen che trovò nel suo punto apicale il Rally Acropolis, con l’uso di un artificio ben poco ortodosso da parte di Ogier, che costrinse Loeb al ruolo di apripista nell’ultima giornata.
In quell’occasione la cupidigia, la voglia ricercata e perseguita del ribaltone, ha avuto la priorità, la pulsione di rinnovamento, una “volontà di potenza” che cerca la massima competitività, la sopraffazione del più debole, che d’altronde è la perfetta rappresentazione del darwiniano confronto all’interno di grandi vivai, dalla M-Sport, che in certo qual modo ha promosso Tanak a discapito di Novikov, al mondo ancora più efferato delle categorie minori, che valorizzano fino all’eccesso l’individualismo.
Certo, è una legge biologica che, nel suo essere ferrea e granitica, vale perlopiù per il rally e per qualsiasi campionato legato al motorsport. E l’altra certezza è collegata al fatto che in quell’anno ebbe la meglio Loeb, così come ad Ypres ha avuto la meglio Loix: non una forzatura, ma la differenza che intercorre fra un campionato dei riflettori ed un altro che è abituato ad operare appena sfiorato da questi ultimi.
Ed è proprio la forza mediatica, il gusto per il tagliente, per la dichiarazione affilata, al vetriolo, che fanno del WRC una corsa psicologica, soffocante, letale per chi cede.
Con ciò, chiaramente, non si vuole affermare la supremazia di una serie sull’altra. Ma il piano più “terreno”, le cui radici affondano saldamente nel territorio, il legame che stringe appassionati e piloti è genuino, puro, non fatto di quei filtri che sembrano sempre più un’eredità della F1. E che, a tal proposito, maschera sempre di più una sua crisi interiore, con il rischio di una grave degenerazione che sfocia in proposte bizzarre –i pit stop in prova speciale su tutti- che sono il chiaro riflesso di uno sganciamento dal mondo reale, verso un approdo ad uno più ovattato, più fasullo.
Gli stipendi, talora immorali, sono un altro volto di una decadenza verticale; la scena, sportivamente parlando, che ha elevato, sublimato e nobilitato il rally, è stata compiuta dallo stesso vincitore, Loix, in una comunione sinfonica di valori sportivi che non ha età. Concedendo il massimo degli onori ad Abbring, esaltando l’intrepidezza della sfida fra purosangue, rintracciando lo spettacolo non nell’artificio, ma nel contatto con il pubblico. Un codice deontologico che si è abbandonato nel più “nichilista” WRC, che cerca il clamore, la discordia, il confronto pungente, se non caustico.
La spontaneità è quel valore aggiunto sopraddetto, che così disperatamente ricerca il mondiale: forse Neuville, venuto a incensare l’evento, si sarà accorto del grande scarto che separa lo show dallo “spettacolo ontologico”, che è così in quanto tale. La giustizia la fa il pubblico e, questa volta, ha sentenziato una bocciatura del WRC che, per scimmiottare i grandi, rischia di diventare una realtà piccola. E impopolare.
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