Quella dietro cui si è riparata Volkswagen è un autentico usbergo, una maglia fitta e intrecciata: dopo quattro gare, se non si tirano ancora le somme, è quantomeno il momento delle prime riflessioni. D’altronde, si insinua sempre più un tarlo negli appassionati: è questo il WRC, lo sport che ha sempre avuto nel consenso plebiscitario un suo punto di forza, seppur nevralgico e sensibile?
E’ inevitabile, in tempi di congelamenti, mettere a fuoco i punti salienti di manovre dibattute, che possono avere ripercussioni in chiaroscuro. E’ l’effetto dei veti incrociati, dell’assenza di una politica comune, essendo fra l’altro un coacervo di regolamenti scritti a quattro mani, fra squadre e FIA. Un vero e proprio pastiche, giacché il mondiale rally si trova sempre ad attraversare una galleria, l’insidioso Patto della Concordia che pare emulare liberamente i canoni di filoni di punta, che non sono altro che F1, WTCC e WEC. Un tetragruppo che più che essere un serbatoio di pensieri, si è orientato seguendo i flussi turbolenti del vento, evidentemente condizionato dagli atteggiamenti di ciascuna squadra, la quale a sua volta protegge degli interessi ben stabiliti.
E possiamo dunque individuare i tre cardini attorno ai quali si snodano non solo gli interessi delle case automobilistiche, ma anche dei veri e propri pilastri, un paradigma di sopravvivenza, in successione logica:
1) Congelamento tecnico per favorire la permanenza nel medio termine di team in dismissione;
2) Budget cap e indirizzamento verso una omogeneizzazione della categoria;
3) Coniugare il contenimento dei costi e l’apertura delle nuove frontiere tecnologiche.
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E’ lampante la difficoltà nell’accorpare le tre linee di pensiero; anzi, è fin troppo chiaro il misoneismo di una soluzione e viceversa gli eccessi delle restanti due. Eppure, in modo ambiguo, incarnano tre filoni separati: non è un mistero la loro valorizzazione a dispetto della carne viva del campionato, il pubblico. Perché se da un lato è improponibile il mantenimento di uno status quo, capace di cristallizzare gli esborsi per l’evoluzione tecnica della vettura, attualmente materializzata solo dai cosiddetti “jolly”, dall’altro le altre soluzioni non sono meno complesse. Infatti, il congelamento tecnico, è di quelle trovate che vanno bene finché reggono, ideali per consentire a due squadre, come Ford e Citroen, sulla soglia della serie, la sopravvivenza propria e la stessa del campionato, il quale ha bisogno fervente del loro “respiro vitale”, ancora gran parte della giostra è proprio in mano ai due costruttori storici, specie quella dei privati. Poi, però, ci si accorge che non basta, non è la strada percorribile nel medio-lungo termine, perché il WRC rischia di far parte della venatura degli ossi di seppia di montaliana memoria; la sua fragilità, inequivocabilmente, emergerebbe.
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Dunque, con quale ratio si può interfacciare un problema di simile portata, specie dopo le scottature non insignificanti della F1, che comincia a riscuotere i proventi di un sentiero irto di insidie, seppur coraggioso ed inesorabile?
Si potrebbe ripartire dalla strada indicata da Bruno Famin, le R5 che hanno ricevuto la “captatio benevolentiae” da parte del pubblico, ma non solo. E’ l’idea del momento, che piace e luccica, ma come saggezza shakespeariana suggerisce, non è tutto oro quel che luccica. Sarebbe come posare la prima pietra di un progetto che nasce nell’involuzione, privo di stimoli vitali, privo di orizzonti temporali, ma anche ideali. Sarebbe una forma estremizzata di appiattimento della prestazione oscuro e non noto al WRC, che si è limitato, nel 2011, a ridurre il ruolo dell’elettronica e a limitare il principio “ubi maior, minor cessat”, perché in fondo, a fronte di costruttori che monopolizzano un campionato attraverso una cascata di liquidi, che vengano investiti più o meno consapevolmente, si rischia infine di estenuare un paziente debole. Il ritornello è sempre lo stesso: coniugare le esigenze dei costruttori e, aggiungiamo noi, soprattutto i loro veti incrociati, contrasti, trasformismi e tutta la gamma di espedienti più finemente politici che sportivi, è opera ardua. E infine, si scopre che anche la ricerca di una riduzione del gap, per mezzo anche del “balance of performance” è un tentativo insufficiente, dacché le vetture del WRC odierne sono tanto uniformi quanto sottilmente differenti e sofisticate. Il ritorno al turbo ha fatto della fluidodinamica interna una dottrina, se non un dogma per i progettisti, anticipati ante litteram dal CFD, la cosiddetta fluidodinamica computazionale, circa la gestione del raffreddamento interno, aprendo dunque una nuova porta. Che non è una frontiera.
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E se questa frontiera fosse la genesi di una nuova epoca, più che una palingenesi?
Il riferimento è chiaro: con il test toscano effettuato da Toyota si è voluto innescare più un ciclo mediatico, che altro, dal momento in cui, di qui al 2017, si attende un fermento di notevole rilevanza. D’altro canto, però, se la distanza temporale appare discreta, il concepimento di un nuovo regolamento deve essere molto più celere: è un affare da concludere entro il 2015, per dare fiato ad un WRC che ha bisogno di stabilità, ma che di immobilismo insito rischia anche di morire. Senza rischiare di precipitare nel rischioso sentiero del FIA WEC: se il mondiale rally è sinonimo di eccellenza, attualmente è ancora l’ottimo interprete di una visuale tesa al restringimento dei costi; una “fisarmonica” farebbe male all’embrione di un campionato in fondo fragile. Il presidente della commissione WRC della FIA Carlos Barbosa ha colto la sfida e già in Portogallo sono state avviate le discussioni, dei veri e propri cahiers de doléances. C’è la consapevolezza, nonché il timore fondato di un eccesso di prudenza che sfoci in attendismi e temporeggiamenti. Bisogna rispondere a chi chiede un mondiale forte della sua personalità, ma anche a coloro che devono far fronte a risorse esigue, partendo dal ripudio di alchimie, della cabala e di tutto l’inventario che possa generare un vulnus. Deve essere un patto alla luce del sole.
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E’ cosa nota, d’altronde, anche la polemica infiammatasi l’anno scorso e non più ripresa dalle squadre nel 2014, circa l’ampliamento del ventaglio; se ne è parlato a sufficienza, ma per un’analisi accurata è un aspetto che non possiamo trascurare. Alla base di un WRC nuovo ci sono due vie, come i lettori avranno chiaramente dedotto, una tesa ad una complessiva semplificazione, in direzione omogeneista, con un neologismo, l’altra in direzione eterogeneista. Nella pratica, si tratta di scegliere una politica per il futuro, fra un radicale restringimento interpretativo del regolamento, teso al principio del budget cap e dunque più ortodosso o viceversa più vicino alla corrente alla quale, forse, Toyota ambisce, cioè l’introduzione dell’ibrido che, ancora oggi, per quanto in fase di forte evoluzione, ha solo un corrispettivo in Formula 1 e nel FIA WEC. Nel mondo più vicino a quello stradale, la sfera del WRC e del WTCC, si inanellano fra 2014 e 2017 due nuove ere, senza alcuna parvenza di affinità; non si deve dimenticare, comunque, che l’apporto elettrico sulla vetture dedicate alla vendita, comporta ancora costi troppo alti, tuttora ancora ritenuti controproducenti da alcune case, visto che il finanziamento dello sviluppo sarebbe ancora superiore ai proventi. E l’attenzione, chiaramente, deve impostarsi secondo un rigoroso razionalismo: da un lato, l’apporto di potenza elettrica non sia una “calamita smagnetizzata”, dacché, come è alquanto ovvio, si andrebbe a costituire una farsesca giostra. Dall’altro, c’è una frontiera che si aprirebbe al WRC, quella elettrica; basti pensare che l’applicazione di un pacco batterie garantirebbe un surplus notevole, dal momento in cui già Citroen, nel 2008, collegò al semiasse posteriore un generatore elettrico di 125 kW. Il che, conseguentemente, innescherebbe una spirale di ricerca non indifferente in numerosi ambiti della vettura. Volendo ragionare a partire da termini pratici, l’EGR (ricircolo dei gas esausti) è oggetto di studio delle case per la riduzione delle temperature massime (e non solo) e, tuttavia, dovrebbe già costituire un ottimo antilag nel WRC, in cui è tornato in auge il motore turbo, a titolo esemplificativo. A questo, si aggiunge la gamma di vantaggi in termini di “ritorno sul prodotto stradale” che sarebbe indubbia. O forse, come osservano in casa PSA, è meglio puntare sull’allargamento dei confini del mondiale, toccando la Cina e la Russia, mercati che piacciono e sul quale i francesi stanno investendo ingenti risorse; poi, però, si rischia di avere un novero di gare scarno e ridotto ai minimi termini all’essenziale, con costi logistici non idonei e solo coerenti ai volumi del mercato, dal momento in cui, agonisticamente parlando, sarebbe una mossa priva di equilibrio e logica, se non appunto per esplicite richieste. E, in fin dei conti, l’idea per la quale ci si impegna nel motorsport per migliorare le proprie quote di mercato è in parte superata. E’, insomma, una strada che si biforca: le due carreggiate, però, non convergerebbero più e si sfiorerebbe una frattura insanabile, quel vulnus di cui abbiamo parlato. Di qui al WRC del futuro, c’è nel mezzo una mediazione inevitabile, fra pretese alquanto differenziate, se non opposte.