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La Dakar prosegue il suo cammino e, sprezzante degli scenari apocalittici prodotti, imbocca la strada dell’arrivo, ma per vedere la luce è ancora troppo presto. Oggi i piloti si sono infilati nei meandri di dune, fiumi secchi, nei pressi di miniere di rame: ci si muove, insomma, costeggiando il Deserto di Atacama, arido e assolutamente inadatto alla vita, ma in realtà per lungo tempo oggetto di contesa politico-geografico, per la dovizia di risorse e da qualche anno, anche sportiva. Quella del deserto, è una vera e propria conquista, è un’investitura che viene dal basso, dal territorio. Ma ha il valore di una Dakar intera, anche perché qui si decide la gara, se ne decide l’intera fisionomia. Nessuno chiude indenne una tappa dalla portata così significativa, così satura di punti critici: è un avvicinamento alla perfezione, una sfida alla natura locale, è un affronto degno della letteratura hemingwayana.
Ultime scene dell’atto finale della gara, dominata da un pathos infranto, spezzato da una consolidata liturgia, che affligge lo sport e lo condanna, esanime, ad una morte di stenti, debilitato a causa di una ritualità “sublime”, ormai mescolatosi con i valori più puri della Dakar. Il fine calcolo del team X Raid, che ha imposto ai suoi piloti, in via coercitiva, il mantenimento delle posizioni, attraverso un congelamento effettivo, è il risultato più degradante che poteva emergere dal magnifico tridente, oggi diventato quartetto; primo passo di un’incrinatura inesorabile fra Peterhansel, mantenutosi a distanza di sicurezza da Roma, e il team MINI; primi segnali, forse, di un avvicinamento a Peugeot.
Vince una tappa “anomala” Orlando Terranova, con dieci minuti su Nani Roma e dodici su Giniel De Villiers, prossimo a gettare qualsiasi barlume di speranza per un podio lontano e, di fatto, mai sfiorato; tanti errori, un ritmo incostante e poco incisivo le prime cause di un insuccesso netto e limpido. Quarto quindi il francese, mosso dalla “ragion di stato”, che ha tirato i remi in barca, fra l’amarezza di un tradimento, una “pugnalata alle spalle” e la consapevolezza della futilità del dispendio di energie per andare ad agganciare il team mate. Anziché schiudersi in una lotta a campo aperto, è stata adottata l’opzione dal più scarso decoro, quella facile e pusillanime, priva di quella forza propulsiva, creativa dei piloti. Quinto Al Attiyah, il quale, dopo aver controllato a lungo la prima piazza, nel finale è precipitato. da chiarire le cause.
Sesto è Ronan Chabot, sul buggy SMG, mentre segue un Lucio Alvarez dalla vitalità ritrovata, Federico Villagra, Holowczyc e Vasilyev, per comporre un gruppo agguerrito, in continua torsione per contendersi le briciole delle grandi portate, quelle degli ufficiali: una gara, fra l’altro, tutta giocata sul predominio, sull’egemonia incontrastata delle grandi squadre, anche in virtù di premature uscite.
Nella categoria moto, si osserva un fenomeno agli antipodi, concretamente già annidatosi dall’inizio, con le Dakar “individualissime” delle punte, Marc Coma, Barreda Bort e Despres, i quali, nonostante tutto, hanno tenuto in mano la staffetta di una gara che si spartiscono dalla seconda metà dello scorso decennio. Vince dunque lo spagnolo, su KTM, con un margine di tre minuti sul pilota Yamaha: in modo simmetrico, seguono i cosiddetti “portatori dell’acqua”, Pain e Viladoms, che si può presumere duellanti di una sfida ultima che si combatte a distanza; in palio, c’è il podio.
Piazza d’onore che si potrebbe concretizzare per Barreda Bort, partito con tutt’altre ambizioni, ma autore di una prestazione maiuscola, che ne afferma la valenza, in qualità di pilota del “ricambio generazionale”.
Seguono Rodrigues e Pedrero Garcia, piloti che si sono già ampiamente imposti nel quadro della gara, ma non sufficientemente incisivi e profondi nelle tappe decisive.
Passando ai camion, invece, è significativa la svolta impressa da Karginov, ieri secondo a pochi secondi dal ceco Loprais, vincitore della decima tappa, mentre l’attendista De Rooy ha visto ulteriormente dimezzarsi il suo vantaggio, portato a pochi minuti. Sfruttando la pienezza del potenziale del proprio Kamaz, alla maniera di Chagin, la sua robustezza ed integrità meccanica, si è lanciato in un folle inseguimento –risposta secca ai calcoli ed ai tatticismi- guidando in modo tutt’altro che pulito, poco preciso, ma alla massima velocità, tagliando ogni curva con la baldanza di chi non si accontenta di essere ricordato a margine, per la presenza. Infilando, anche oggi, un altro successo, con l’arrivo in pompa magna al bivacco della squadra russa, grazie alla doppietta favorita dal secondo posto di Nikolaev, a ben quindici minuti!
Un passo gara di fatto articolatosi sul filo del funambolo, considerata anche la propensione dei camion a rimanere appesi a quel filo, senza il quale tendono ad insabbiarsi o, addirittura, a ribaltarsi. L’equilibrio instabile, ossimoro di questa categoria, il cui interprete migliore si fa carico, appunto, di tutta la contraddizione. Struggente, dopo nove giorni di dominio assoluto, l’abbandono della vetta per il team Iveco, De Rooy le ha tentate tutte, fallendo di fronte alla tenacia russa; per arrendersi, tuttavia è ancora presto.
Chi invece, lascia a terre ambizioni di podio è Loprais, oggi quarto e troppo lontano da Nikolaev; si preannuncia, comunque una “due giorni” di Dakar ancora bollente, ammesso che gli olandesi vogliano tentare l’azzardo ultimo.
Si riparte domani da El Salvador, con ancora cinquecento chilometri di fronte, nelle ultime due prove, tutte da sfruttare per l’ultima categoria in gioco, quella dei camion, salvo colpi di scena nelle restanti.
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