Chiudiamo il mese di gennaio con un articolo finale sulla Dakar: non più una diretta, ma liberi spunti di riflessione, perché in fondo il rally sudamericano è sempre ricco di tematiche adatte per un’analisi altrettanto corposa: il nostro obiettivo, invece, è quello di ripercorrere alcuni momenti salienti, per riviverne le emozioni, senza “schemi” tradizionali.
Peterhansel e Despres: regolarità e versatilità, ricetta vincente
Anche se i confronti “paralleli” non sono corretti e nemmeno auspicabili, guardando le prestazioni di Peterhansel, si denota una certa vicinanza con quel Loeb che nel WRC ha il suo punto di forza nella pulizia di guida. Anche il francese della X-Raid, in effetti ha vinto, senza strafare: il rientro in auge dei buggies è stato del tutto insignificante per un driver abituato ad avere il pieno controllo della propria vettura: ciò che è più clamoroso, è la sequenza di piazzamenti, tutti entro la decima posizione, diretta conseguenza prima di una guida da perfezionista, poi dell’affidabilità senza precedenti della Mini: la Dakar è tuttora una gara molto dura, le dune peruviane, come abbiamo diverse volte evidenziato nel nostro percorso, sono fra le più alte mai scalate nella storia del rally raid. Sono bastate solo due vittorie di tappa per contrastare la rincorsa di due squadre, quella di Al-Attiyah-Sainz e l’altra di Chicherit-Chabot, che avevano approfittato dei cambi regolamentari per sfruttare la grande agilità dei loro mezzi. La fluidità di guida, tuttavia, non ha trovato l’appoggio dell’affidabilità, frequentemente precaria, origine, di fatto, di una partenza a singhiozzi, che sin dall’inizio ha compromesso la possibilità di condurre una gara più distesa e controllata, bensì sempre all’inseguimento. Una condotta, da due anni a questa parte, alla quale è stato costretto il qatariano, ma che complica in modo irreversibile la performance personale, costringendo la vettura a sforzi, specie nell’ambito meccanico, non di rado ripagati: l’assistenza, infatti è rapida e ha durate limitate, tali da impedire dei “check-up” notturni completi. Tornando all’argomento, dunque, possiamo affermare che è sempre stato presente un filo diretto fra i due francesi: regolarità e versatilità, lo abbiamo giudicato “un gioco”, in senso lato, aspettando prima di agguantare la propria preda. Basti pensare, ad esempio, allo stesso Despres, che ha conquistato la leadership nella ultime cinque tappe. Qui, si denota l’arguzia del motociclista, quello che aspetta l’ultima settimana per attaccare, nella consapevolezza che la classifica si scala progressivamente. Sprezzante verso i critici, attenti ad osservarlo nella sostituzione del motore durante le ultime giornate, pronti ad “aggredire” il cinque volte campione, osservato d’obbligo. Ed è qui l’altro punto nevralgico della nostra discussione: controllare le pressioni degli avversari senza intoppi, mai inseguire a grandi distanze, ma aspettare il giusto momento per muovere i primi passi. Chi, solo per citare tre esempi, come Barreda Bort, Al Attiyah, Sainz ha subito sin dall’inizio pesanti gap (ci riferiamo in particolare a quest’ultimo, assolutamente sfortunato e privo di alcuna colpa, in questo senso), oppure si è lanciato in offensiva a partire dal primo weekend, ha già messo in gioco le proprie possibilità di successo: in questo passaggio emerge “l’uomo da Dakar vincente”. I transalpini, per questo, stupiscono in tutti sensi, vincitori dal primo all’ultimo chilometro.La questione non è stata solo un’attesa: Peterhansel ha dovuto invece prima tenere “sotto controllo” i piloti “esuberanti”, quali Alvarez, Chicherit e Chabot, tanto per citarne tre, mentre Despres ha dovuto fare i conti con gli agguerriti Faria, Pain, Lopez e Casteu, tutti crollati, pezzo dopo pezzo. Eleganza, indubbiamente, ma il pilota della Mini ha dovuto fare i conti con uno specialista come Al Attiyah, il quale incarna certamente lo spirito del lottatore “da ring”, pronto a sfidare l’avversario in un corpo a corpo fino al KO definitivo. Così è stato, nel tentativo di riprendere l’undici volte campione della Dakar: un albero, nella nona prova, ha ribaltato i progetti di gloria del qatariano, già in parte compromessi con il ritiro del compagno Sainz.
De Rooy, Nikolaev, IVECO e Kamaz: intreccio di una gara “a squadre”
Sicuramente appassionante è stata anche la sfida nella sezione dei camion, di cui abbiamo parlato molto durante la diretta tappa per tappa. Abbiamo parlato di duello “culturale”, in quanto Kamaz partecipa in modo diretto ed è sempre stata la squadra di riferimento in Russia, nazione che coltiva da sempre una forte passione per il rally raid. Iveco, invece, che dall’altra parte è il rappresentante di spicco della realtà occidentale, non si dimentichi infatti che si è costituito una sorta di “quadripolio”, formato da Iveco-Man e Kamaz-Tatra, di fatto protagonisti dell’ultimo ventennio, del post Perlini. Da allora, si raccontano storie individuali e collettivi, team che non hanno alcuna possibilità di vittoria senza una compattezza interna, ma si fondano su personalità di grande autorevolezza: Karel Loprais e Vladimir Chagin su tutti. Oggi i “discendenti”, provano ad emergere, ci sono stati alcuni exploit, Stacey e Kabirov in primo luogo: attualmente bisogna verificare quale svolta possa imprimere De Rooy rispetto ad una squadra, quella con cui Nikolaev ha vinto la sua prima Dakar, comunque vero team di riferimento. Ciò non implica un blocco della serie, in quanto la concorrenza, sebbene un po’ frammentata, ha trovato nella squadra italo-olandese grande tenacia e spirito di collaborazione, anche affidandosi alla saggia guida di Biasion, ormai veterano dei rally raid. Inoltre, nel 2013, MAN si è rilanciata, oltre che con il sempreverde Van Vliet, anche grazie a Versluis, combattente di natura e grande sorpresa di quest’anno. Come si è visto, inoltre, nel potenziale l’assolutamente innovativo Powerstar, ma anche lo stesso Trakker, ben sviluppato nel corso degli anni, hanno decisamente qualcosa in più da esprimere, in termini assoluti, in confronto al 4326, il quale ha appuntato diverse volte la sua firma nel Palmares dei “Trucks”. Infatti, se vogliamo analizzare nel dettaglio la gara, possiamo effettivamente affermare che a condannare De Rooy sia stata la turbina e nient’altro: Nikolaev, ottimo temporeggiatore, ne ha approfittato, ma non ha mostrato la stessa tempra del vincente. Resta una scalata al successo importante e di notevole impatto nel mondo del motorsport: il russo, da meccanico, è diventato gradualmente driver, giungendo fino al fresco successo. Dietro al tris di Nikolaev-Karginov-Mardeev c’è grande amarezza per IVECO, che si era presentata come favorita, rispettando i pronostici: perdendo nel corso delle ultime giornate qualsiasi risultato di rilievo, è sfumato il sogno: d’altro canto, non è stato insignificante il lineare crollo del team: con la perdita di due aspiranti al successo, sin dall’inizio, cioè Stacey e Biasion, il compito è stato del tutto affidato al leader, senza un concreto ed esteso appoggio.
Uno degli appuntamenti dei motori più popolari al mondo, è noto ai lettori appassionati, è sempre stato così: taglia nettamente il dolce dall’amaro, il successo dalla sconfitta, perché dietro al titolo annuale c’è un lavoro minuzioso, il cui, in un solo istante può andare in frantumi. E’ una giustizia “iniqua”, che magari può penalizzare chi ha mostrato la propria supremazia. Ed è qui, che si concreta il sapore più intenso di ogni anno, nella sua forma: saper ripartire da zero, nella consapevolezza “che fa parte del gioco”, la sfortuna, ma che si riflette in modo ciclico: non tutti hanno, del resto, curato in modo opportuno l’affidabilità. Forse, come suggerisce Nani Roma, ciascuna tappa dovrebbe essere più lunga, estenuante, per rivivere l’emozione della Dakar nel suo concetto primario: fatica, tribolazione e sforzo. Le difficoltà sono aumentate, ma la durezza, il “survival” fisico, che i reduci ricorderanno, non è effettivamente più lo stesso: il cronometro, nel rally raid, non può prevalere in assoluto, non si può ridurre questa gara ad una analoga al WRC. I percorsi sono affascinanti, più tecnici e più insidiosi di quelli africani, ma non incarnano, a detta di diversi piloti, esattamente l’anima e il corpo tradizionale della versione originale, molto meno veloce, ma estesa, appunto, lungo distanze notevolmente maggiori. E’ l’inizio graduale di una nuova epoca?